Teatro

Stregato da Ibsen. Leonardo Lidi, vincitore del Biennale College

Leonardo Lidi
Leonardo Lidi

Intervista al giovane regista emiliano, che si è aggiudicato il premio della Biennale di Venezia riservato agli under 30

Non ha ancora trent’anni ed è stato nella scorsa stagione fra i migliori talenti visti sulla scena italiana. Leonardo Lidi, attore e regista piacentino, ha da poco vinto il prestigioso premio Biennale College, bandito dalla Biennale di Venezia: una somma di centomila euro per produrre il prossimo spettacolo, sotto la guida di Antonio Latella. Il suo studio su Spettri di Henrik Ibsen è stato scelto in una rosa di sei proposte.

 

Leonardo, hai conquistato un bel riconoscimento ma soprattutto una grande opportunità di regia.
Sono molto contento. È stato bello rapportarmi con Spettri e con questi quattro attori superlativi (Michele Di Mauro, Mariano Pirrello, Ilaria Matilde Vigna, Christian La Rosa, n.d.r.), ed è stato bello mostrarlo ai ragazzi della biennale; e, ovviamente, è stato bello ricevere la notizia della vittoria.

Spettri è un’opera difficile da indagare: il sottile gioco dell’ipocrisia borghese è collocato in un tempo e in un luogo distanti dal nostro presente. Perché hai scelto questo lavoro?
Ibsen è uno di quegli autori che mi ha dato le chiavi d'accesso per il teatro: da ragazzino mi sono avvicinato alla scena grazie ad alcuni testi, e Spettri è uno di questi. Quando ho dovuto scegliere quale opera rappresentare ho cercato di tornare a quello stato di “ingenuità”: l'ho riletto (per la centesima volta) e mi sono detto: «Sì, Spettri

Come hai affrontato il testo?
Ho cercato di non farmi ingabbiare dall'idea comune che abbiamo dei lavori di Ibsen in Italia, partendo dalla base, dalla capacità che ha questo autore di divertire lo spettatore: penso ad esempio al personaggio del falegname e ai suoi giochi dialettici con la figlia Regina. Ibsen può far ridere, Molière può far piangere; questa per me è una regola importante. Mi sforzo di esser sincero nell’approccio a un testo e non farmi condizionare da ciò che è stato già visto e fatto.

Cos’hai visto a teatro negli ultimi anni che ti ha lasciato un segno?
Giro molto, anche in Europa, per andare a teatro. Sono rimasto molto impressionato dalla Wassa Schelesnowa di Stephan Kimmig, anche perché Gorki non lo fa nessuno. Poi Ostermeier, in particolare la sua Hedda Gabler; Il misantropo diretto da Ivo Van Hove; Il piccolo Eyolf diretto da Richard Eyre per l’Almeida Theatre. E Marthaler, e Warlikowski. In Europa si vedono lavori di grande valore, che in Italia faticano ad entrare nei cartelloni.

Non è un caso che Santa Estasi, il magnifico progetto ERT guidato da Antonio Latella a cui anche tu hai preso parte come attore, ad oggi sia stato ignorato da tutti i teatri e da tutti i festival italiani, ma è stato subito preso dal Festival di Avignone.
Però l’anno prossimo a maggio saremo al Piccolo di Milano.

E della scena italiana quali lavori ricordi volentieri?
Uno spettacolo che mi piacque molto, anche se non ebbe gran risalto, è La modestia di Spregelburd diretto da Luca Ronconi: un esempio di come divertirsi a teatro e col teatro. Poi l’Elettra di Andrea De Rosa, Venere e Adone di Valter Malosti, Un tram chiamato desiderio di Antonio Latella.

Non hai citato molti giovani.
Allora ti segnalo l’Anna Cappelli di Annamaria Troisi, una giovane attrice straordinaria che non ha ancora la visibilità che si merita.

Quando hai cominciato ad appassionarti al teatro?
Faccio teatro da quando ero bambino, ho iniziato alle scuole elementari; poi alle superiori andavo a Milano per tre sere alla settimana, facendo le ore piccolissime. Avevo capito che non era una passione passeggera. Quando ho cominciato a lavorare a Milano per una web tv ho sentito che senza il teatro non stavo bene e quindi ho deciso di fare qualche provino. Mi è andata bene perché sono entrato subito alla scuola del Teatro Stabile di Torino.

Per lo Stabile hai curato anche alcune regie.
Sì, dapprima una riscrittura di Peter Pan per i bambini e poi un lavoro su Natalia Ginzburg. Non sono state le prime – avevo già lavorato coi Filodrammatici di Piacenza – ma sono state per me un passaggio di svolta.

Una tua caratteristica come regista.
Chiedo sempre agli attori con cui lavoro di non pre-occuparsi: di non occuparsi cioè di una cosa prima del tempo, un’ansia che molti attori tendono ad avere. E poi la sincerità: se credo nella bontà di una scelta devo avere il coraggio di non preoccuparmi delle conseguenze.

Chi è per te Antonio Latella?
Un regista che da spettatore amo, un regista per il quale prendo volentieri il treno per andare a vedere ovunque i suoi lavori; un professionista che ha segnato un passaggio cruciale nella mia formazione. Santa estasi è stato per me un tassello fondamentale. Sono felice di lavorare ancora con lui per questo nuovo Ibsen: da Latella ho imparato l'importanza della responsabilità nel lavoro.

Dimmi un personaggio importante nella tua crescita personale.
Enzo Jannacci.

Ecco, mi aspettavo un colpo di teatro…
Un giorno ero sul treno Milano-Piacenza e c'erano tutti i pendolari ammassati, quasi non si respirava. Io ero seduto per terra accanto alla porta d'uscita e sento un tizio ridere dietro di me. Era Jannacci, seduto nella toilette chiusa, che rideva per i fatti suoi.

Fantastico.
Io non avevo neppure vent’anni, conoscevo a malapena il suo nome. Incuriosito, ho cominciato ad ascoltare le sue canzoni. Un artista straordinario, poetico e politico.

Tu come regista ti senti più artigiano o più sacerdote?
Non mi piace nessuno dei due cliché. Io sono innamorato e credo nel teatro. Tutto il resto, comprese le definizioni, non conta.